“La luce elettrica è democratica finché non salta”

L’energia nucleare è come quel parente scomodo ma pratico: lo eviti finché non si rompe la caldaia. Troppo intelligente per essere ignorato, troppo compromesso per essere accettato senza riserve. Ma oggi, con il costo della bolletta che fa più paura di una fuga radioattiva e la CO₂ che soffoca il pianeta peggio di un sacchetto in testa, anche gli anti-atomo più devoti iniziano a guardarlo con occhi un po’ meno carichi di disprezzo e un po’ più pieni di disperazione.

Per anni ci siamo raccontati la favola bella delle energie rinnovabili: pulite, eterne, democratiche come i like su Instagram. E lo sono. Ma c’è un piccolo dettaglio che continua a sfuggire a chi sogna un mondo alimentato solo da vento, sole e buoni sentimenti: la fisica. Quando il sole tramonta e il vento decide di farsi un giro altrove, l’unica cosa che resta accesa sono le centrali a gas. Quelle stesse che bruciano metano russo mentre parliamo di autonomia energetica sorseggiando Spritz.

In questo scenario schizofrenico, l’energia nucleare si ripresenta al ballo, nonostante le ceneri di Chernobyl, il trauma di Fukushima e il nostro incrollabile talento per l’ipocrisia. Già, perché se da un lato diciamo mai più centrali!, dall’altro importiamo silenziosamente energia dalla Francia, che di reattori ne ha 56. È come dire “sono vegano, ma faccio un’eccezione per il ragù della nonna”.

Questo articolo non vuole convincerti. Non è una petizione, né una predica. È una radiografia ironica ma chirurgica dello stato delle cose: quali sono i nostri bisogni energetici, quali scelte abbiamo davvero, e se l’energia nucleare sia ancora un’opzione da mettere sul tavolo – magari lontano dai bambini, ma sul tavolo.

Pronto a farti esplodere qualche certezza? Proseguiamo.

Simbolica rappresentazione iperrealistica dell'energia nucleare come scelta tra futuro pulito e caos fossile

Il fabbisogno energetico: quando l’Italia ha fame e non sa cucinare

In teoria, siamo un paese civile. In pratica, non sapremmo accendere una stufa senza bruciare gas importato a caro prezzo da qualcun altro. Il nostro fabbisogno energetico è quello di una nazione moderna, ma con un atteggiamento da turista energetico: consumiamo come se avessimo tutto, ma produciamo come se vivessimo in una fattoria autosufficiente del Molise.

Nel 2022, l’Italia ha richiesto circa 149 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep) per far funzionare il suo teatrino di luci, gas, auto e termosifoni. Di questa montagna di energia, solo una parte è prodotta internamente. Il resto? Lo compriamo. A caro prezzo. Da Paesi con i quali, spesso, condividiamo tutto tranne i diritti umani.

E la domanda è destinata a crescere. Perché se vogliamo davvero “elettrificare i consumi”, come recita la nuova liturgia green, allora dobbiamo moltiplicare la produzione di energia elettrica come moltiplicavano i pani e i pesci in Galilea: senza gas e senza miracoli. Auto elettriche, pompe di calore, industrie decarbonizzate: tutto bellissimo, ma energivoro. Per capirci, se davvero vogliamo abbandonare gas e petrolio, dovremmo più che raddoppiare la produzione elettrica entro il 2050. E no, non basteranno i tetti fotovoltaici di Trebaseleghe.

A oggi, siamo già in affanno. Lo dimostra il nostro amore tossico per l’importazione di elettricità. l’Italia è infatti la seconda nazione importatrice netta di elettricità al mondo, dopo Hong Kong. Solo che Hong Kong è una città-stato, noi abbiamo le Alpi, il sole, il vento, la geotermia… e un’incapacità cronica di usarli bene.

Intanto, la domanda globale cresce ancora più velocemente. Cina, India, Africa: tutti vogliono l’aria condizionata, i data center, l’auto elettrica, il frigo pieno. Non è una colpa, è una traiettoria storica. Ma se la torta energetica resta la stessa, e tutti ne vogliono una fetta più grande, indovina chi paga di più la bolletta?

E qui arriva la grande domanda: come possiamo produrre più energia, a costi accettabili, senza devastare il clima e senza inginocchiarci a ogni crisi geopolitica?

La risposta, forse, non è unica. Ma di certo non è il solito “più pannelli per tutti” che ci raccontano nei talk show. Anche perché quando c’è nebbia a Pavia e bonaccia a Brindisi, i pannelli dormono e le pale stanno ferme. E allora, o si accende il gas… oppure si considera che l’energia nucleare potrebbe tornare a dire la sua.

Ma calma. Non anticipiamo. Di questo parleremo più avanti.

📌 Quanta energia consuma davvero l’Italia?

⚡ Consumo totale di energia elettrica

  • 312,3 TWh: è il consumo complessivo di energia elettrica in Italia nel 2024, segnando un aumento del +2,2% rispetto al 2023. ​elettricomagazine.it
  • 57,5 GW: è il picco massimo di domanda oraria registrato il 18 luglio 2024, tra le 15 e le 16. ​Infobuildenergia

🔋 Produzione nazionale e importazioni

🌱 Fonti rinnovabili in crescita

🏭 Fonti fossili in calo

🏗️ Nuove capacità installate

  • 6,795 MW: è la nuova capacità fotovoltaica installata nel 2024, contribuendo al record di produzione. ​
  • 76,6 GW: è la potenza complessiva da fonti rinnovabili installata in Italia. ​

Il mix energetico italiano: fossili, illusioni e un po’ di incenso green

Chi guarda il mix energetico italiano per la prima volta potrebbe anche farsi ingannare: un po’ di sole, un po’ di vento, qualche sbuffo geotermico e l’immancabile idroelettrico nostalgico. Ma basta grattare appena sotto la superficie per scoprire che il nostro sistema è un patchwork di compromessi, dominato ancora dai fossili, impastato di retorica e paralizzato da una pianificazione da anni Ottanta.

Partiamo dai numeri nudi: nel 2023, l’Italia ha prodotto circa 264,7 TWh di energia elettrica, di cui 116,6 TWh da fonti rinnovabili . Nonostante un incremento delle rinnovabili, la produzione termoelettrica (principalmente da gas naturale) rimane predominante, con 157,9 TWh, rappresentando una quota significativa della produzione totale .

Le fonti rinnovabili, sbandierate in ogni convegno e logo aziendale, coprono circa il 44% della produzione elettrica nazionale, con l’idroelettrico che ha registrato una ripresa significativa, raggiungendo 38,2 TWh, un aumento del 36% rispetto al 2022 . Tuttavia, il restante fabbisogno è coperto da fonti fossili, evidenziando una dipendenza persistente da combustibili importati.

Nel frattempo, mentre predichiamo l’autosufficienza, l’Italia importa oltre il 15% dell’elettricità che consuma, e non da una cooperativa etica di Bolzano. La prendiamo dalla Francia (nucleare), dalla Svizzera (idroelettrico e nucleare), dalla Slovenia (nucleare), perfino dall’Austria. Una specie di accattonaggio energetico di lusso, dove però non ci vergogniamo, perché l’energia importata non puzza. Anzi, ci permette di dire: noi il nucleare non lo vogliamo. Basta che ce lo portino già convertito in kilowatt.

E poi ci sono i costi. Non quelli economici – ci arriviamo dopo – ma quelli ambientali e strategici. Dipendiamo da Paesi terzi per le fonti più critiche, abbiamo un’infrastruttura ancora legata a modelli superati, e una politica energetica che cambia ogni cinque legislature, cioè ogni sei mesi.

Nel frattempo, mentre gli altri Paesi europei diversificano, costruiscono e testano nuove tecnologie (compreso il nucleare), noi ci limitiamo a firmare accordi per “nuovi rigassificatori galleggianti” e ad augurarci che il clima non sia troppo freddo né troppo caldo. La definizione perfetta di mancanza di visione.

Nel prossimo capitolo vedremo perché, pur aumentando la quota di rinnovabili, il sistema non regge.

📊 Composizione del mix energetico italiano – 2024

Nel 2024, il fabbisogno elettrico nazionale è stato soddisfatto attraverso le seguenti fonti:​

🔹 Fonti Rinnovabili (43,1%)

🔸 Fonti Non Rinnovabili (40,5%)

🔄 Saldo Estero (Importazioni nette): 16,4%

Rinnovabili sì, ma… anche no: benvenuto nei paradossi della transizione

Le energie rinnovabili sono la nuova religione laica dell’Occidente in crisi. Hanno tutto: l’estetica della purezza, il dogma del progresso, la promessa di salvezza climatica. Sole, vento, un po’ di geotermia, qualche digestore di letame e via, abbiamo salvato il mondo. O almeno così ci raccontano.

Ma la verità – quella che non passa nei reel motivazionali con le turbine al tramonto – è che il sistema energetico non funziona a Instagram. Funziona con un principio molto più banale: la corrente serve quando la chiedi, non quando c’è sole.

Ed è qui che arriva il primo, gigantesco paradosso: più rinnovabili metti in rete, più ti servono i fossili.

Sì, hai letto bene. Perché l’eolico e il fotovoltaico, per loro natura, non sono programmabili: producono energia quando possono, non quando serve. E siccome la rete elettrica deve sempre bilanciare domanda e offerta in tempo reale, ogni kilowattora rinnovabile dev’essere accompagnato da un backup rapido. Indovina quale? Il gas. Ancora lui. Come il tuo ex che non sopporti ma che sa ancora la password del Wi-Fi.

E se pensi: “basta accumulare l’energia!”, ti rispondo: con cosa, scusa? Le batterie al litio? Belle, utili, costosissime. L’idroelettrico a pompaggio? Limitato a dove hai le montagne e l’acqua. L’idrogeno? Forse tra dieci anni. Nel frattempo, a coprire i buchi ci pensano i soliti noti: gas e carbone (sì, anche quello è tornato).

Ma non è finita. Entra in scena il secondo paradosso: il meccanismo del prezzo marginale.

Nel mercato elettrico europeo, il prezzo dell’energia è determinato dal costo dell’ultima centrale attivata per soddisfare la domanda. E guarda caso, nei momenti critici, questa centrale è quasi sempre… a gas. Risultato? Anche se il fotovoltaico produce a costo zero, l’energia viene pagata al prezzo del gas. Morale: anche con una valanga di rinnovabili, le bollette esplodono. E tutti a dare la colpa al sole che tramonta troppo presto.

E poi c’è l’effetto cannibalizzazione: quando il fotovoltaico produce tanto (ad esempio a mezzogiorno), il prezzo crolla, scoraggiando chi vorrebbe investire in nuove rinnovabili. Troppa offerta fa male anche alla transizione. Sì, anche questa è una perla del sistema.

Insomma, l’attuale mix è un castello di carte dove ogni tecnologia giura di non potersi muovere senza le altre, mentre i consumatori – cioè noi – pagano il conto di questo ménage à trois tra rinnovabili, fossili e illusioni.

Ecco perché, se vogliamo un sistema energetico pulito, stabile e coerente, dobbiamo smettere di credere alle fiabe e iniziare a parlare di soluzioni programmabili. Tipo… sì, esatto: l’energia nucleare.

Ma prima di invocarla come la Madonna radioattiva del XXI secolo, vediamo cosa ha davvero da offrire. E soprattutto: quanto costa, quanto rende, quanto sporca e quanto dura.

L’energia nucleare come soluzione razionale? Sì, ma non ditelo troppo forte o si offende il fotovoltaico

Nel 2025, mentre in Italia discutiamo ancora se costruire centrali nucleari ci farà crescere un terzo occhio, il resto del mondo… le costruisce. E le accende. Perché? Perché l’energia nucleare ha una virtù che non fa notizia ma salva sistemi energetici: è continua. Non guarda le nuvole, non aspetta il vento, non va in ferie a Ferragosto.

Eppure, ogni volta che se ne parla, parte il mantra: “Costa troppo”, “È lenta”, “Le scorie! Le scorie!”. Ma fuori dalla bolla emotiva, la realtà è molto meno ansiogena e molto più numerica.

🔋 Alta densità energetica, bassissime emissioni

Un reattore nucleare di media taglia (es. EPR francese) produce tra i 1.600 e i 1.750 MW continui, per oltre il 90% delle ore dell’anno. Un parco eolico da 1.500 MW, invece, produce effettivamente circa 400–500 MW medi su base annua. Il fattore di capacità del nucleare è superiore all’85%, quello delle rinnovabili oscilla tra il 20% e il 40%.

Sulle emissioni? Secondo l’IPCC, l’energia nucleare è una delle fonti a più bassa intensità di CO₂ (tra 3 e 12 gCO₂eq/kWh), paragonabile o addirittura migliore del fotovoltaico (IPCC AR6 Report). Ma non basta dire “emette poco”: la vera forza del nucleare è che lo fa sempre, anche quando il sole dorme e l’eolico piange.

🌍 Il mondo se ne è accorto. Noi no.

Nel 2025 ci sono circa 440 reattori attivi nel mondo, con oltre 60 nuovi in costruzione. La Cina, in piena accelerazione, prevede di raggiungere i 200 GW nucleari entro il 2035. La Francia ha confermato la costruzione di sei nuovi reattori EPR2, e altri otto in valutazione. La Finlandia ha acceso l’Olkiluoto 3. La Polonia, che non ha mai avuto nucleare, sta costruendo i primi due reattori americani AP1000.

E l’Italia? Stiamo pensando di pensarci. O meglio: nel 2024 il Governo ha rilanciato la Piattaforma per un Nucleare Sostenibile, con studi su SMR (Small Modular Reactors), ma ancora nessun progetto operativo. Al massimo, compriamo da chi ha il coraggio di fare. Tipo la Francia. O la Slovenia. O la Svizzera. Ci sentiamo a posto così: antinucleari per statuto, ma solo se l’energia ci arriva già pulita e impacchettata.

⚙️ Tecnologia? Non siamo più a Chernobyl

Le tecnologie del 2025 non hanno nulla a che vedere con i mostri d’acciaio del secolo scorso. Gli SMR possono produrre tra i 50 e i 300 MW, si costruiscono in serie, si installano più velocemente, e hanno sistemi di sicurezza passiva: se qualcosa va storto, si spengono da soli. Letteralmente. Alcuni modelli usano sali fusi o metalli liquidi al posto dell’acqua, abbattendo anche il rischio idraulico.

E sul fronte costi, sì: i grandi reattori sono cari, ma gli SMR promettono di scendere sotto i 5 miliardi di euro per unità, con tempi di installazione di 4-6 anni. Molto meno di una crisi energetica e parecchio meno di un’invasione russa.

Insomma, l’energia nucleare nel 2025 è tutt’altro che una tecnologia morta. È anzi l’unica fonte non fossile in grado di garantire continuità su scala industriale, mentre rincorriamo accumuli che non accumulano e reti che non reggono.

Il punto è: vogliamo davvero affrontare la transizione energetica da adulti, o restare nella comfort zone delle soluzioni simboliche?

Nel prossimo capitolo inizieremo a sfatare le balle radioattive: perché no, non stai per morire solo perché esiste una centrale nucleare a 300 km da casa tua. E no, le scorie non ci seppelliranno tutti. Ma prima, diamo un’occhiata a come funziona davvero un reattore, e perché è più affidabile di qualsiasi decreto ministeriale.

Come funziona un reattore nucleare: l’eleganza brutale della fissione

Partiamo dalla base: un reattore nucleare non è un incantesimo sovietico che funziona con l’odio. È una macchina. Una macchina estremamente sofisticata che sfrutta un principio della fisica atomica scoperto nel 1938: la fissione nucleare.

In parole povere?
Prendi un atomo di uranio-235, lo colpisci con un neutrone, e lui si spacca in due. In questo processo libera:

  • una quantità enorme di energia (sotto forma di calore),
  • altri neutroni,
  • prodotti di fissione (scorie, ma ci arriviamo),
  • zero emissioni di CO₂.

Questa reazione viene mantenuta sotto controllo in un circuito chiuso, dove i neutroni sono rallentati da un moderatore (di solito acqua) e assorbiti parzialmente da barre di controllo (di boro, argento o cadmio), che possono essere alzate o abbassate per regolare la potenza del reattore.

Il calore prodotto serve a riscaldare acqua, che diventa vapore e aziona una turbina che genera elettricità. Esattamente come una centrale a carbone, solo che qui nessuno brucia niente e l’aria resta respirabile anche per chi non vota ambientalista.

🛠️ Tipi di reattori oggi attivi (2025)

  • PWR (Pressurized Water Reactor) – il più comune al mondo. Acqua in pressione, due circuiti separati, sicurezza collaudata.
  • BWR (Boiling Water Reactor) – usa l’acqua direttamente come refrigerante e generatore di vapore. Più semplice, meno diffuso.
  • PHWR (CANDU) – usa acqua pesante. Funziona anche con uranio naturale. Tipico in Canada.
  • SMR (Small Modular Reactors) – la nuova generazione compatta, più sicura e scalabile. Alcuni già in funzione in Russia e Cina.
  • Reattori di IV generazione – ancora in fase pilota. Usano sali fusi, piombo liquido o torio. Più efficienti, più sicuri, teoricamente in grado di riciclare parte delle scorie.

🧯 E la sicurezza?

Un reattore moderno è costruito come un bunker dentro una cassaforte dentro una tuta da palombaro. Il contenitore di contenimento (containment vessel) resiste a esplosioni, urti aerei e perfino all’idiozia umana.
I sistemi di raffreddamento passivo, nei reattori di nuova generazione, non hanno bisogno di energia esterna: funzionano per gravità, convezione, e termodinamica pura. Se qualcosa va storto, il reattore si spegne da solo.

Per capirci: un reattore nucleare non può esplodere come una bomba atomica. Mai. Nemmeno se lo implori.

⚙️ Rendimento e capacità

Il rendimento di un impianto nucleare è attorno al 33-37%, simile a quello di una centrale a gas, ma con una differenza fondamentale: lavora ininterrottamente per oltre il 90% delle ore dell’anno.
In confronto, un impianto fotovoltaico in Italia ha un fattore di capacità attorno al 18-20%. Significa che per produrre la stessa energia elettrica continua di un singolo reattore da 1.000 MW, ti servono 5.000–6.000 MW di pannelli solari. Più backup, più accumulo, più rogne.

Insomma: il reattore nucleare non è l’orco cattivo della favola. È il forno industriale più stabile, pulito e potente che l’uomo abbia mai costruito. E mentre noi lo demonizziamo con meme su Chernobyl, il resto del mondo lo considera un elemento chiave per il futuro.

Nel prossimo capitolo vedremo perché in Italia lo abbiamo spento – e come siamo riusciti nella rara impresa di autoboicottarci energeticamente per trent’anni.

Italia e nucleare: un amore interrotto (e una dipendenza negata)

Ci fu un tempo in cui l’Italia stava in prima fila nella corsa al nucleare. No, non è una leggenda metropolitana. Negli anni ‘50 e ‘60 eravamo tra i pionieri europei, con scienziati di livello mondiale (qualcuno ha detto Enrico Fermi?) e un piano industriale che non faceva ridere neanche un tedesco.

Avevamo quattro centrali attive:

  • Latina (entrata in funzione nel 1963),
  • Garigliano (1964),
  • Trino Vercellese (1965),
  • Caorso (1981).

E ne erano previste almeno una dozzina in tutto il territorio. Poi successe Chernobyl.

Nel 1987, dopo il disastro sovietico (che, ricordiamolo, avvenne in una centrale progettata male, gestita peggio e guidata da un manuale d’istruzioni in cirillico scritto da Satana), l’Italia votò con un referendum non per abolire il nucleare, ma per interrompere i finanziamenti pubblici e la costruzione di nuovi impianti. Il risultato? Un’interpretazione creativa da parte dei governi successivi: chiusura completa e decommissioning delle centrali esistenti. Applausi. Standing ovation. E importazioni dalla Francia subito dopo.

Il grande paradosso italiano

Nel 2025, non abbiamo un solo reattore attivo sul nostro territorio. Ma compriamo energia da Paesi che la producono proprio col nucleare. La Francia, per esempio, ci vende ogni anno una fetta consistente della sua elettricità a basso costo e zero emissioni. La Slovenia ci serve energia dal reattore di Krško. La Svizzera pure.
Il tutto mentre ci vantiamo di “essere un Paese senza centrali nucleari”. Esatto: non le abbiamo. Ma le paghiamo lo stesso.

È un po’ come dire: non possiedo armi, mentre affitti un sicario per farti difendere la casa.

Focus: Referendum 1987 – Cosa diceva davvero, e cosa abbiamo capito male

🗳️ I tre quesiti sul nucleare

L’8 e 9 novembre 1987, gli italiani votarono su tre quesiti referendari riguardanti l’energia nucleare:​

  1. Localizzazione delle centrali nucleari: si chiedeva l’abrogazione della norma che permetteva al CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) di decidere la localizzazione delle centrali nucleari qualora le Regioni non si esprimessero entro termini stabiliti.​
  2. Contributi agli enti locali: si proponeva l’abrogazione dei contributi statali destinati agli enti locali che ospitavano centrali nucleari o a carbone sul loro territorio.​
  3. Partecipazione dell’ENEL all’estero: si proponeva l’abrogazione della norma che consentiva all’ENEL di partecipare alla costruzione e gestione di centrali nucleari all’estero.​

In tutti e tre i quesiti, la vittoria del “Sì” ha portato all’abrogazione delle norme in questione.​

Cosa non dicevano i quesiti

È importante sottolineare che nessuno dei quesiti referendari vietava esplicitamente l’uso dell’energia nucleare in Italia o prevedeva la chiusura delle centrali esistenti. Tuttavia, l’esito dei referendum ha avuto un impatto significativo sulla politica energetica nazionale.​Certifico

⚠️ Le interpretazioni comuni

Nonostante i quesiti non imponessero la chiusura delle centrali nucleari, l’esito dei referendum è stato interpretato come un forte segnale politico contro l’energia nucleare. Di conseguenza, il governo italiano ha deciso di interrompere i programmi nucleari in corso e di avviare la disattivazione delle centrali esistenti.​

🔚 Le conseguenze

Dopo il referendum, l’Italia ha abbandonato progressivamente l’energia nucleare. Le centrali esistenti sono state chiuse, e i progetti in fase di sviluppo sono stati cancellati. Da allora, l’Italia ha fatto affidamento su altre fonti di energia, comprese le importazioni, per soddisfare il proprio fabbisogno energetico.

Il ritorno del tema, tra rebranding e dissonanza cognitiva

Negli ultimi anni, il tema nucleare ha ricominciato a bussare alla porta del dibattito pubblico. Ma non come “costruiamo nuove centrali”. No, troppo diretto. Troppo adulto.
Si parla invece di:

  • SMR: piccoli reattori modulari, installabili ovunque, puliti, moderni, non spaventano i bambini (almeno non troppo).
  • Nucleare sostenibile: un ossimoro che serve a farlo digerire anche a chi ha votato Legambiente.
  • Piattaforma per un nucleare italiano: una cabina di regia, creata nel 2024, che ha il compito di studiare la fattibilità del ritorno al nucleare. Tradotto: ci stiamo pensando, ma non troppo forte, altrimenti si spaventa il condominio.

E mentre noi “studiamo”, nel mondo costruiscono. Ma tranquilli, noi importiamo.

Il mondo va (anche) verso l’atomo: reattori, dati e chi se ne frega dei tabù

Nel 2025, mentre da noi si litiga ancora su quale Comune non voglia il Deposito Nazionale delle scorie (spoiler: tutti), il resto del mondo sta costruendo oltre 60 nuovi reattori nucleari. No, non modelli da esposizione: centrali vere, giganti, che producono energia elettrica 24/7 senza una molecola di CO₂.

La Cina, tanto per iniziare, ha già 55 reattori operativi e 23 in costruzione. Non contenti, hanno annunciato che entro il 2035 vogliono diventare il primo Paese al mondo per potenza nucleare installata, superando perfino la Francia, che oggi vanta 56 reattori attivi e ha già approvato 6 nuovi EPR2 (European Pressurized Reactors di nuova generazione).
Il tutto mentre ristruttura il parco esistente, estendendone la vita utile oltre i 50 anni. Altro che rottamazione.

La Finlandia ha acceso nel 2023 Olkiluoto 3, il più potente reattore d’Europa (1.600 MW), che ora garantisce quasi il 15% della produzione elettrica nazionale. E no, non ha fatto scappare le renne.

Anche la Polonia – che storicamente non ha mai avuto nucleare – ha rotto gli indugi: ha firmato con gli Stati Uniti un accordo per tre reattori AP1000, e con la Corea del Sud per altri due. Motivo? Vogliono liberarsi dal carbone, ma non finire schiavi del gas. Elementare.

La Gran Bretagna prosegue con Hinkley Point C, due reattori EPR da 3.200 MW complessivi, e ha dato il via libera anche a Sizewell C, stessi numeri, stesso format: affidabilità, continuità, impatto climatico ridicolo.

La Corea del Sud esporta reattori. La Turchia ha appena ultimato Akkuyu, con tecnologia russa. La Russia, nonostante tutto, continua a vendere impianti nucleari nel mondo come se fossero Lavazza. E gli USA? Dopo decenni di pausa, stanno investendo miliardi nel programma Inflation Reduction Act, che include rilancio del nucleare, inclusi gli SMR e i reattori a sali fusi.

Nel frattempo, in Italia, l’unica cosa che si è costruita è un comitato tecnico per capire se parlare di nucleare sia compatibile con il GDPR.

🧠 Morale della favola

Chi ha una visione strategica, investe. Chi ha una classe politica pavida e un’opinione pubblica malinformata, fa finta di essere green mentre alimenta il sistema con gas altrui.
Il nucleare nel mondo non è un ritorno nostalgico al Novecento: è una scelta concreta per decarbonizzare senza blackout e senza finire ostaggi dei mercati fossili.

Ma attenzione: non basta costruire centrali. Serve fiducia, competenza, tempo. E soprattutto: serve smettere di credere che ogni centrale sia Chernobyl e ogni scoria un mutante Marvel.

E infatti nella prossima sezione scendiamo nel cuore del problema:
Sicurezza.
No, il nucleare non esplode come una bomba. Sì, ci sono stati incidenti. Ma forse ti sorprenderà scoprire quante vite ha salvato, invece che tolto.

Sicurezza nucleare: l’atomo non è una bomba, ma la disinformazione sì

Ogni volta che si parla di energia nucleare, il primo pensiero va a Chernobyl. Il secondo a Fukushima. E il terzo… beh, di solito è “scappiamo tutti”.
Il problema è che il dibattito sulla sicurezza è stato colonizzato da film catastrofici, ignoranza tecnica e traumi ereditati da un’epoca in cui il nucleare era effettivamente un po’ cowboy.

Nel 2025, però, le cose sono molto diverse. Ma davvero. Non “un po’ migliorate”. Radicalmente cambiate.

📉 I numeri che nessuno ti dice

L’energia nucleare è una delle forme di produzione elettrica più sicure al mondo in termini di mortalità per unità di energia prodotta. Lo dice non Nucleare Sì, ma l’OMS, l’IEA, e il report scientifico di Our World in Data:

Fonte energeticaMorti per TWh prodotto
Carbone24,6
Olio18,4
Biomassa4,6
Gas2,8
Solare0,07
Eolico0,04
Nucleare0,03

📌 Fonte: Our World in Data – Hannah Ritchie, 2020
(Valori confermati da aggiornamenti IEA 2023. E no, non sono pagati da Bill Gates.)

💥 Ma gli incidenti?

Sì, ci sono stati. Ma analizziamoli senza isteria:

  • Chernobyl (1986): tecnologia obsoleta, gestione criminale, niente contenimento. Una tragedia sovietica, non replicabile nei reattori occidentali, né oggi né nel 1986.
  • Fukushima (2011): tsunami da 15 metri, blackout totale, danni contenuti. Nessuna morte diretta da radiazioni. Sì, ZERO. Le uniche vittime sono state causate dallo stress dell’evacuazione, non dal reattore.
  • Three Mile Island (1979): fusione parziale del nocciolo, contenuta. Nessuna vittima. Nessuna contaminazione significativa.

Nel frattempo, il carbone ha ucciso centinaia di migliaia di persone per inquinamento atmosferico. Ma nessun regista ci ha mai fatto una miniserie HBO su questo.

🧠 Ma perché ci fa così paura?

  • Perché è invisibile, complesso e male raccontato.
  • Perché associamo “nucleare” a “bomba” (che è fissione incontrollata, non produzione civile).
  • Perché non capiamo la differenza tra dose assorbita, esposizione e rischio.
    E soprattutto: perché i media, ogni volta che una centrale “perde vapore”, mettono sirene rosse e titoli da apocalisse, mentre quando brucia una centrale a carbone, al massimo si lamentano i pendolari.

Il rischio percepito del nucleare è mille volte superiore al rischio reale.
È come se rifiutassi di prendere l’aereo (1 incidente ogni 11 milioni di voli) perché “non si sa mai”, ma guidassi senza cintura su una Panda del ‘99.

La domanda vera non è: il nucleare è sicuro al 100%?
La domanda è: quale fonte lo è? E quale ci espone a rischi maggiori?

Nel prossimo capitolo parleremo di uno dei temi più gettonati per dire “no” senza dire “non ho capito”: le scorie. Quella roba radioattiva che secondo molti “rimane attiva per millenni”. Sì. E allora? Anche i pannelli esausti, le batterie al litio e il cemento armato dell’eolico non è che spariscano in una nuvola di glitter.

Ti porto dove non ti porta Greenpeace.

La gestione delle scorie: problema tecnico o feticcio ideologico?

Diciamolo subito: sì, le scorie nucleari esistono. No, non brillano nel buio.
E no, non stanno seppellite sotto il letto del cugino di uno che ha votato DC nel ‘74. Ma se ascolti certa propaganda, sembrerebbe che una banana radioattiva faccia più danni di una centrale a carbone. E allora mettiamo ordine.

🧪 Cos’è una scoria nucleare?

Una scoria nucleare è un rifiuto radioattivo prodotto principalmente da:

  • reattori nucleari (combustibile esaurito),
  • medicina nucleare (sì, anche l’ospedale sotto casa tua),
  • industria e ricerca scientifica.

Si divide in bassa, media e alta attività, a seconda della quantità e durata della radioattività.
Il 99% delle scorie totali è a bassa e media attività, con decadimento entro 300 anni. L’1% restante (il combustibile esaurito) è effettivamente radioattivo per migliaia di anni, ma è volumetricamente minimo e contenibile.

Per capirci: tutte le scorie ad alta attività prodotte da una centrale da 1.000 MW in 40 anni stanno in un campo da tennis, alte due metri. E stanno lì ferme. Non migrano, non si moltiplicano, non vanno a votare.

🧯 Come si gestiscono?

  • Bassa e media attività: stoccaggio temporaneo e poi smaltimento in contenitori schermati in depositi superficiali.
  • Alta attività: prima raffreddamento in piscina (5–10 anni), poi stoccaggio a secco in contenitori blindati (cask), infine destinazione a deposito geologico profondo.

La tecnologia esiste. I paesi civili la usano.
La Finlandia, ad esempio, ha costruito Onkalo, il primo deposito geologico definitivo del mondo: una cattedrale sotterranea progettata per durare 100.000 anni, senza bisogno di manutenzione.
La Svezia ha approvato il progetto di Östhammar, stesso principio, approccio trasparente, zero isteria.

E noi?

🇮🇹 L’Italia e il Deposito Nazionale: la sagra del “non nel mio giardino”

In Italia le scorie ci sono – tutte derivate dal periodo 1960–1990 – e stanno stoccate provvisoriamente in vari siti SOGIN.
Nel 2021 è stata pubblicata la CNAPI (Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee) per costruire il Deposito Nazionale. E da quel momento è iniziato il grande gioco del “ma anche no”: ogni Comune ha trovato un motivo per dire no. Troppe falde. Troppa agricoltura. Troppi ricordi d’infanzia.

Risultato?
Nel 2025, nessuna decisione definitiva è stata presa. Il materiale resta in strutture provvisorie, obsolete e dispendiose.
Sì, lo Stato paga milioni di euro ogni anno per non fare nulla. Ma ehi, almeno non abbiamo una “bomba radioattiva nel quartiere”. Solo un problema lasciato ai nipoti.

🔄 Alternative? Anche il riciclo

Le scorie non sono tutte da buttare. Alcuni paesi – come la Francia – riciclano parte del combustibile nucleare per riutilizzarlo in reattori MOX. I reattori di IV generazione promettono di usare come combustibile proprio le scorie ad alta attività.
Tradotto: ciò che oggi consideriamo “rifiuto pericoloso” potrebbe essere il carburante del futuro. Non male, per roba che secondo qualcuno “nessuno vuole”.

La verità è semplice: le scorie si gestiscono, si monitorano, si contengono. E in molti paesi, lo fanno da decenni senza isteria collettiva.

Il vero problema non è la radioattività.
È la radioattività politica e culturale che in Italia impedisce di ragionare come adulti.

Nel prossimo capitolo chiudiamo il cerchio. Perché prima di dire sì o no, dovremmo almeno farci un’idea basata su fatti, non su paure da cartoon del sabato pomeriggio.

Opinione pubblica e nucleare: tra bias cognitivi, ideologia e isteria preventiva

L’energia nucleare, in Italia, non ha un problema tecnico. Ha un problema psicologico di massa. Non importa quanti dati snoccioli, quanti esperti intervengano, quante volte l’IPCC ripeta che è tra le fonti più sicure e pulite: basta nominare “centrale nucleare” e l’opinione pubblica italiana entra in modalità Chernobyl Live.

Perché? Perché non abbiamo paura del nucleare.
Abbiamo paura dell’immagine mentale che ci siamo costruiti del nucleare. E quella, spoiler, è più influenzata da The Day After che da qualunque report tecnico.

🧠 Bias cognitivi e trappole mentali

  • Effetto disponibilità: ricordiamo Fukushima perché è mediatico, ma dimentichiamo le migliaia di morti da smog ogni anno.
  • Zero Risk Bias: pretendiamo zero rischio dal nucleare, ma tolleriamo incidenti stradali, tumori da carbone e catastrofi climatiche come fossero parte della routine.
  • Framing ideologico: se sei ambientalista, “non puoi” essere a favore del nucleare. È una questione di identità, non di ragionamento. E l’identità, si sa, è impermeabile ai dati.

Tutto questo crea un rifiuto emotivo che si maschera da scelta razionale. Peccato che spesso sia solo paura irrazionale travestita da “principio di precauzione”.

🗳️ Cosa dicono i sondaggi (spoiler: cambia tutto)

Nel 2023, un’indagine Ipsos ha rilevato che oltre il 51% degli italiani sarebbe favorevole al ritorno del nucleare se questo riducesse la dipendenza dai combustibili fossili.
Tra i giovani under 35, la percentuale sale al 62%.
Nel 2024, SWG ha registrato un aumento di +9% del favore verso l’atomo in appena un anno.

Il punto? La narrazione sta cambiando. Piano, ma cambia. Il greenwashing ha stancato. Le bollette hanno svegliato. Il rischio climatico è diventato più concreto di quello radiologico. E i giovani – meno traumatizzati dal passato e più attenti alla scienza – iniziano a chiedersi se non sia il caso di riparlare di energia nucleare con cervello acceso, non con le ginocchia che tremano.

📺 Il ruolo (tossico) dei media

Ogni volta che un reattore “perde vapore”, il titolo è: “ALLARME RADIOATTIVO”.
Ogni volta che brucia una centrale a carbone, invece, si parla di “rottura alla cabina elettrica”.
Questo framing martellante ha prodotto una paura disallineata dalla realtà, difficile da sradicare.

Eppure, se vogliamo affrontare il futuro con onestà, dobbiamo cominciare da qui: disintossicarci dalla propaganda emotiva e recuperare il diritto di cambiare idea. Anche se per vent’anni abbiamo detto “nucleare mai più”.

Nel prossimo e ultimo capitolo tireremo le somme.
Senza slogan, senza partiti presi.
Solo una domanda: vogliamo energia vera, o solo narrazioni rassicuranti?

Conclusioni: l’atomo e la scelta di diventare adulti

L’energia nucleare non è la panacea. Non risolve tutto, non è gratis, non è veloce.
Ma ha una caratteristica che oggi vale più dell’oro, del litio e del bonus caldaie: la coerenza fisica.

Produce energia in modo costante, su larga scala, senza emissioni di CO₂.
Richiede investimenti, sì. Ma restituisce stabilità, autonomia e prospettiva.
È una tecnologia evoluta, monitorata, e (dati alla mano) più sicura di ogni forma di produzione fossile.
E soprattutto: esiste già. Funziona. E la usano i Paesi seri.

Nel frattempo, l’Italia continua a galleggiare nella sua schizofrenia energetica:

  • senza centrali, ma con le spine attaccate alla Francia.
  • con sfilate green e il 60% dell’energia che brucia metano.
  • con la paura delle scorie, ma l’incapacità cronica di gestire perfino l’umido.
  • con gli ambientalisti che dicono “basta fossili” e poi si oppongono a tutte le alternative credibili.

Serve una scelta. Una scelta adulta.
Non ideologica, non nostalgica, non di pancia.
Una scelta strategica, basata su dati, contesto, e visione.
E la visione non può essere “più pannelli su più tetti e incrociamo le dita”.

🎯 Il punto non è “nucleare sì o no”.

Il punto è:

  • Vogliamo davvero liberarci dai fossili?
  • Vogliamo elettrificare tutto, ma con quale fonte stabile sotto?
  • Vogliamo garantire energia pulita anche a chi non vive sotto un impianto idroelettrico del 1923?

Se le risposte sono serie, il nucleare non può più restare fuori dal tavolo. Non come dogma, ma come opzione. Come parte di un mix razionale, efficiente, e compatibile con la realtà fisica.

🔥 La vera bomba non è atomica.

  • È l’inazione.
  • È la paura travestita da prudenza.
  • È la difesa cieca di modelli che non reggono.
  • È il blablabla istituzionale mentre il sistema crolla sotto i blackout estivi, i rigassificatori d’emergenza e le bollette triplicate.

Non ti stiamo chiedendo di amare il nucleare.
Ti stiamo chiedendo di pensare.
A voce alta. Con lucidità. E, magari, con un po’ di bastardaggine illuminata in più.

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