Un mondo prima del Wi-Fi
Eccoti servita la Storia di Internet:
C’era una volta… il silenzio.
Niente notifiche, niente banner, niente gente che diceva “ti mando il link”. C’era il mondo reale. Che sì, era spesso noioso, a volte insopportabile, ma almeno non ti spiava mentre cercavi una crema per emorroidi.
Prima che il Wi-Fi diventasse il nostro habitat mentale, l’essere umano comunicava con altri esseri umani usando corde vocali, empatia e – quando proprio serviva – un telefono con il filo. Non c’erano like, ma c’era la possibilità concreta di guardarsi in faccia e capire se qualcuno stava mentendo. Beh certo, lo facevano comunque, ma almeno dovevi essere presente.
Poi arrivò l’idea.
Un’idea nobile, rivoluzionaria, quasi ingenua nella sua purezza: connettere cervelli distanti per condividere sapere, informazioni, scoperte. Nacque così l’embrione di Internet: un progetto militare travestito da sogno accademico, o forse il contrario, chi può dirlo?
Inizialmente, il web non aveva pubblicità, né meme, né commenti con “non hai capito il punto”. Era una rete di intelligenze. Letteralmente. Gente che studiava fisica, matematica, informatica, e voleva semplicemente parlarsi senza aspettare la posta del giorno dopo.
E ora? Ora Internet è la più grande invenzione dell’umanità.
Ed è anche il suo più riuscito sabotaggio.
Com’è possibile che un progetto nato per far dialogare scienziati sia diventato il tempio globale di cospirazionisti, tutorial per sbianchettare i denti, influencer del nulla e gente che minaccia di morte per una recensione negativa a un film Marvel?

GLI ALBORI – Quando il web non era ancora una trappola per click
Internet nasce sotto la minaccia di una bomba nucleare.
Letteralmente. Siamo negli anni Sessanta, l’aria sa di Guerra Fredda e paranoia, e il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha un problema: se Mosca manda un missile ben piazzato, tutte le comunicazioni vanno in tilt. Serve una rete che non abbia un centro, che possa sopravvivere anche se mezza distrutta. In pratica: la versione militare di un’idra digitale.
Così nasce ARPANET.
No, non è una boyband sovietica, ma il primo embrione di Internet: una rete per collegare tra loro i computer di università e centri di ricerca. L’obiettivo? Condividere risorse e conoscenze tra scienziati. Niente gattini, niente cospirazionismo, niente NFT con le scimmie. Solo cervelli, bit e caffeina.
Il primo messaggio della storia del web fu…
“LO”.
Sì, volevano scrivere “LOGIN”, ma il sistema crashò dopo due lettere. Un presagio perfetto: Internet avrebbe sempre promesso più di quanto riuscisse a consegnare.
Eppure, per un po’, la creatura fu pura.
Niente pubblicità. Niente “iscriviti alla newsletter per continuare a leggere”. Solo menti brillanti che costruivano qualcosa di nuovo, un po’ alla cieca, un po’ per gioco. Erano nerd, idealisti, visionari. E forse un po’ ingenui, convinti che una rete del sapere avrebbe reso il mondo migliore. E guarda un po’: non è andata così.
Nel frattempo, qualcuno cominciava a intuire il potenziale.
Non solo per condividere paper scientifici, ma per costruire una nuova infrastruttura globale. In fondo, se colleghi le menti… poi puoi anche colonizzarle. Ma quella è un’altra puntata.
Per ora, ci basti sapere questo:
Internet nasce libero, decentralizzato e pieno di buone intenzioni.
Proprio come tante rivoluzioni. Poi arriva il denaro. E con lui, l’infezione.
L’UTOPIA – Il sogno libertario degli anni ’90
Negli anni ’90 Internet è giovane, ribelle e ancora in cerca di senso.
È un’adolescente geniale e disordinata, piena di potenziale e di acne digitale. Le aziende ancora non sanno bene cosa farsene, i governi la sottovalutano, e gli utenti… sono una tribù di hacker, pionieri, smanettoni, filosofi del modem a 56k.
È l’era dell’Open Web: una distesa selvaggia e promettente dove la conoscenza è condivisa, il codice è aperto e la parola “copyright” fa ridere tutti.
Nascono i forum, le mailing list, i primi siti personali costruiti con pazienza e HTML grezzo. Nessuno parla di “branding”. Nessuno monetizza le emozioni altrui.
C’è ancora l’illusione che la rete possa rendere il mondo più giusto, più libero, più intelligente.
Internet è uno spazio democratico, anarchico, persino poetico.
Le identità sono fluide, i nickname si scelgono per gioco, non per strategia di posizionamento. Puoi essere chi vuoi, e nessuno ti interrompe con un banner per la carta di credito.
È in quegli anni che si diffonde un motto divenuto mitologia:
“Information wants to be free.” (Il sapere vuole essere libero.)
Un grido di battaglia per gli idealisti del web. Peccato che le infrastrutture costino, i server abbiano bisogno di elettricità, e la libertà – come sempre – abbia un prezzo che qualcuno dovrà pagare.
Nel frattempo, la Rete cresce. Si diffonde nei campus, poi nelle case, poi negli zaini dei bambini sotto forma di Wi-Fi.
Ma mentre gli sbandieratori della libertà digitale brindano ai sogni di una cultura disintermediata, qualcuno bussa alla porta.
E non è Babbo Natale.
È il capitalismo digitale.
C’erano una volta i pixel grossi, le connessioni lente e le pagine web che pesavano meno di una foto su WhatsApp. Nessun algoritmo, niente scroll infinito, solo testo, link blu e un entusiasmo un po’ nerd.
Se vuoi navigare come nel 1996, prova TheOldNet.com: una macchina del tempo digitale che ti riporta ai bei tempi in cui i siti non ti chiedevano i biscotti… perché li tenevi nella credenza, non nel browser.
L’INFEZIONE – Quando sono arrivati i soldi (e le aziende)
Ogni utopia ha il suo tradimento.
Nel caso della Storia di Internet, è arrivato col suono dolce-amaro del modem che si connette… e con l’odore inconfondibile del denaro. Gli anni ’90 finiscono in bolla: quella delle dot-com, aziende nate per vendere qualsiasi cosa online – spesso senza sapere nemmeno cosa.
Gli idealisti vengono sorpassati a destra (su corsia a pagamento) dai primi venture capitalist: gente in giacca che non capisce cos’è TCP/IP, ma sa che può diventare ricco. E rapidamente.
Così Internet si commercializza. Inizia l’invasione silenziosa ma letale: banner pubblicitari, pop-up, e-mail di spam che promettono allungamenti miracolosi – non del cervello, ovviamente.
I motori di ricerca diventano motori di profilazione.
Google, nato come geniale mappa del sapere mondiale, scopre che c’è più profitto nell’osservarti mentre cerchi, che nel darti ciò che cerchi.
L’algoritmo impara, ti studia, ti prevede. E poi ti vende.
Ogni clic è una moneta. Ogni ricerca è una confessione.
E poi arrivano loro: i Social Network.
In principio erano goffi e timidi: MySpace, Friendster, un po’ emo, un po’ sperimentali. Poi è arrivato Facebook, il mostro gentile. Sembrava una rubrica digitale.
Si è rivelato una macchina da guerra psicologica in HD.
I social trasformano Internet in uno show collettivo.
La privacy diventa un ostacolo. L’autenticità, un filtro.
Il capitale umano viene ottimizzato a colpi di like, commenti, condivisioni e discussioni da 4000 caratteri con tua zia che posta bufale sulla vitamina D.
E mentre il mondo si convince che stiamo vivendo la “rivoluzione digitale”, in realtà stiamo barattando la nostra attenzione con lo scroll infinito. Nessuno sa più cosa stava cercando, ma intanto ha guardato tre video di cucina, due tragedie e un influencer con la pelle finta.
Internet non è più la Rete della conoscenza.
È diventato il supermercato globale della distrazione.
E noi siamo lì, in fila, col carrello pieno di contenuti che non ricordiamo di aver scelto.
Dietro ogni grande rivoluzione tecnologica… c’è qualcuno che cerca di guardare porno.
È brutale ma vero: l’industria pornografica è stata una delle principali forze trainanti dell’innovazione online, anche se pochi lo dicono ad alta voce (tranne noi, ovviamente).
🎥 Streaming? Il porno l’ha reso popolare prima di Netflix.
💳 Pagamenti sicuri online? Sperimentati prima di Amazon.
📱 Video ottimizzati per mobile? Indovina chi ci ha lavorato.
Il porno ha capito prima di tutti una verità digitale: l’attenzione è potere. Il desiderio è valuta.
Non è stato un effetto collaterale: è stato un motore invisibile, spesso vergognato, mai irrilevante.
👉 Approfondisci con fonti autorevoli:
– The Atlantic
– Vice
– MIT Technology Review
IL PRESENTE – L’algoritmo comanda, tu (s)corri
Benvenuto nell’epoca in cui non navighi più, sei navigato.
L’Internet di oggi non è un luogo: è un ambiente cognitivo controllato da algoritmi opachi, disegnati per massimizzare il tempo di permanenza, minimizzare il pensiero critico e convertire ogni interazione in profitto.
Se prima cercavi contenuti, ora sono loro a cercare te.
Ti arrivano addosso come volantini volanti in un centro commerciale cosmico.
Solo che non puoi evitarli. E ti sembrano fatti apposta per te. Perché lo sono.
Il tuo feed sa più di te di quanto osi ammettere a te stesso.
Il Web 2.0: tutti produttori, nessuno proprietario
Hai un profilo, un pubblico o un parere? Ottimo. Sei contenuto gratuito.
Ogni post, ogni foto, ogni commento è un mattone nella cattedrale del capitale digitale. E la cattedrale non è tua.
I social ci hanno convinti di essere al centro, ma siamo solo utenti, cioè utensili.
I tuoi like nutrono un algoritmo.
Gli scroll generano dati.
I tuoi dati alimentano intelligenze artificiali che ti profilano meglio di tua madre.
Echo chamber: benvenuto nel tuo mondo finto
L’algoritmo ti mostra solo ciò che ti conferma.
Hai un’opinione? Bravo. Ora ne avrai cento, tutte uguali.
Ogni dissonanza viene silenziata. Ogni complessità viene ridotta.
E tu ti radicalizzi, sorridendo.
Intanto, là fuori, la realtà sfugge, mentre tu litighi nei commenti di un post su TikTok con un diciassettenne che ha appena scoperto Nietzsche, “quello che ha detto che Dio è morto”.
Disinformazione e dopamina
L’informazione non è più questione di verità, ma di viralità.
Il contenuto che funziona è quello che fa reagire, non riflettere.
Così il web, nato per liberare le menti, oggi le intrattiene mentre si addormentano.
Non è più solo una rete. È un sistema nervoso artificiale.
E tu sei una sinapsi al servizio dell’engagement.
Dark Web: il lato oscuro della rete
Il Dark Web è una porzione nascosta di Internet accessibile solo con browser speciali (come Tor). Non è indicizzato da Google e non lo trovi scrollando per sbaglio.
Non è illegale di per sé, ma al suo interno si trovano attività illecite (traffici, mercati neri, dati rubati), accanto a contenuti usati da attivisti, giornalisti e dissidenti per aggirare censura e sorveglianza.
📌 Attenzione:
- Il Dark Web ≠ Deep Web (che include contenuti non indicizzati ma innocui, tipo le tue email).
- È uno spazio di libertà, ma anche di rischio.
- Non è un parco giochi: serve consapevolezza, non curiosità da sabato sera.
IL FUTURO? – Metaversi, IA e altre distopie travestite da progresso. La storia di internet prosegue
Se il presente è governato dagli algoritmi, il futuro promette… ancora peggio, ma con una UI più elegante.
Ci stanno vendendo la prossima fase di Internet come una rivoluzione, ma sa molto di sequel: più immersivo, più invadente, più totalizzante.
Il Web 3.0: libertà o nuova bolla?
Promettono un Internet decentralizzato, libero da censura, banche, governi e zii complottisti. Peccato che, per accedervi, servano portafogli digitali, criptovalute volatili, NFT che sembrano clipart di un videogioco del ’98 e una fiducia cieca in smart contract scritti da anonimi.
La narrativa ufficiale dice: “È l’Internet della libertà”.
La realtà? È spesso l’Internet della speculazione, dove ogni azione è tokenizzata e ogni idea ha il suo prezzo (variabile).
Il Metaverso: la fuga dalla realtà in VR
L’altra grande promessa: vivere online, in mondi 3D dove puoi essere un drago influencer o un avatar con sei lavori nel marketing.
Il metaverso è l’upgrade del sogno capitalista: se la realtà è invivibile, creane una nuova… e vendila in abbonamento.
Si parla di “nuove forme di socialità”, ma siamo onesti:
vuol dire solo nuovi modi per isolarsi insieme.
O per partecipare a riunioni in VR con avatar senza gambe.
Un progresso che fa venire nostalgia dell’età della pietra.
Intelligenza Artificiale: la mente che pensa al posto tuo
E poi c’è lei, l’IA: non dorme, non sbaglia, non ha scioperi.
Scrive testi, crea arte, fa diagnosi, ti suggerisce come vivere meglio.
O almeno così dice.
Ma chi controlla l’intelligenza che ci controllerà?
Chi decide se un contenuto è “buono” o “dannoso”?
Siamo sicuri che la libertà di espressione sopravviverà all’etica automatica?
Il rischio non è che l’IA diventi cosciente.
Il rischio è che noi smettiamo di esserlo, perché deleghiamo tutto a un sistema che non sa cosa vuol dire essere umani.
La verità è che il futuro di Internet non è scritto nel codice, ma nelle scelte che (non) stiamo facendo.
E ogni click è un voto. Ma nessuno ti ha spiegato per cosa stai votando.
CONCLUSIONE – Internet ci ha cambiati. Ma noi cosa abbiamo fatto a lui?
Internet doveva essere un cervello collettivo, un orizzonte aperto, un salto evolutivo nella storia della comunicazione umana.
E lo è stato.
Per un attimo.
Poi è diventato un gioco di specchi deformanti, dove ognuno guarda solo sé stesso, amplificato, filtrato, monetizzato.
La rete ci ha promesso conoscenza, ci ha regalato infodemia.
Ci ha offerto connessioni, e ci ha lasciati più soli.
Ci ha dato una voce, ma l’ha mescolata a un baccano globale dove chi urla di più si becca l’attenzione.
E chi pensa, spesso, viene segnalato.
Internet ci ha resi più rapidi, ma meno profondi.
Più informati, ma meno consapevoli.
Più esposti, ma meno vulnerabili (in senso umano).
In fondo, l’abbiamo addestrato noi.
E ci ha restituito una versione perfetta dei nostri peggiori istinti, ottimizzati per la vendita.
Ma non è colpa sua.
Internet non è cattivo. È uno specchio.
Siamo noi che, guardandoci dentro, abbiamo smesso di vedere qualcos’altro.
Non possiamo spegnere Internet, ma possiamo smettere di usarlo come zombie iperconnessi.
Commenta, condividi, invia a quell’amico che vive online da quando ha smesso di vivere offline.
E se stai leggendo questo su uno smartphone in bagno… respira. Sei ancora umano. Forse.